lunedì 6 febbraio 2012

Think Big, Live Big


La storia del miracolo lavorativo mi ha messo di fronte a qualche straordinaria verità.
Avevo iniziato proprio pochi mesi prima a informarmi sulla filosofia nata dall’onda di “the secret” - grazie tra l’altro a una specie di counselor dei poveri che teneva corsi (obbligatori e mai graditi) presso il mio di allora datore di lavoro - e avevo preso l’abitudine, specie nelle lunghe ore che passavo in auto ferma in tangenziale, di praticare gli esercizi che alcuni libri consigliano al fine di entrare nel giusto mood.
All’inizio era uno sforzo incredibile, sovrumano per me che altroché dire grazie per quello che ho appena aperti gli occhi, sono sempre stata più per il grugnire e il maledire quello che non ho (una casa alle Hawaii, il lavoro dei miei sogni, possibilmente anch’esso alle Hawaii, o meglio ancora un biglietto della lotteria multimilionario) .
Poi ho iniziato a divertirmi. Immaginavo quello che avrei voluto essere nel mio futuro: una professionista affermata e non sfruttata con un lavoro che mi rendesse possibile essere anche mamma di tanti pupetti (due: non ho puntato eccessivamente in alto, volevo restare sul realistico , e già questo alla me di allora sembrava fantascienza), e mentre accadeva mi sentivo davvero così, soddisfatta della mia vita, realizzata, rincuorata.
Pur ben consapevole del sottilissimo limite tra l’ immaginazione allo scopo di indurre pensiero positivo e la follia delirante, mi sono lasciata prendere la mano e me la sono proprio stragoduta.
Avevo la mia casetta con giardino, arredata in stile provenzale, da cui uscivo per accompagnare i miei pupetti a scuola e lavorare solo part time, dopo una bella colazione alla Mulino Bianco con tutta la famiglia (mi sono concessa l’incoerenza di immaginare le mie adorate tazze british style decorate a mano, che solo in sogno farei maneggiare a dei bambini). Il pomeriggio, prima di passare a scuola a prendere i miei figli, mi concedevo una bella lezione di yoga (avevo un sogno nel sogno: diventare insegnante) e, dopo un pomeriggio dedicato ai bimbi e una serata a mio marito, mi rintanavo nel mio studio caldo e accogliente, per scrivere. Non mancavano due splendidi golden retriever, una coppia, che passavano tutto il tempo appiccicati a noi qualsiasi cosa facessimo.
I miei deliri a occhi aperti hanno iniziato però a farmi sentire cosi bene che ho visto la vita come credo dovrebbe essere sempre per tutti coloro che possono permetterselo (e io sono tra quei fortunati) : un gioco. E sentivo che, se avessi davvero avuto il coraggio di giocare con lo spirito giusto, pur rispettando le regole , avrei vinto.
E mi sono venuti a mente degli episodi che solo quando salgo sul treno del mio psicodramma fai-da-te riesco a riscostruire.
Mi sono ricordata che da ragazzina, almeno fino ai tredici anni, tutti mi dicevano “ma tu ridi sempre” . Il che mi fa pensare che ridessi proprio tanto (e forse anche a sproposito, ma va be, guardiamo “il lato positivo” della faccenda). A un certo punto so di aver abbassato il livello. Forse ho addirittura smesso. Conosco bene gli eventi che mi hanno portato a questo cambiamento radicale.
Mi sono ricordata di un giorno, avrò avuto sei anni, che camminando per strada di ritorno da casa dei nonni dove mi recuperava dopo il lavoro, ho chiesto con insistenza alla mamma di comprarmi “english for kids” o qualcosa di simile. La prima uscita era in edicola a un prezzo promozionale ma siccome solo la seconda aveva anche la videocassetta avevo insistito per avere anche quella.
Forse non era la serata adatta a insistere, forse mia mamma aveva delle preoccupazioni sue che non c’entravano niente con la mia smania di studiare l’inglese. Fece un enorme sforzo per comprarmi quel corso, e mi minacciò anche di punizioni corporali se non mi fosse piaciuto. A nulla valse la mia peraltro molto logica richiesta “ Ma mamma se non lo provo come faccio a sapere che mi piace?”. Lei sembrava convinta di quel che diceva, e io le credetti.
Mentre cucinava, mortalmente arrabbiata per qualcosa che non conoscerò mai, io seguivo il mio corso in videocassetta. Ma avevo una tale paura, non tanto di prenderle quanto piuttosto di deluderla e farla soffrire , che invece di entusiasmarmi continuavo a ripetermi “ oh no, non mi piace, non mi piace, e adesso come faccio? Cosa dico alla mamma?”. Alla fine trovai il coraggio, mi avvicinai piano, le confessai che in effetti no, non mi piaceva abbastanza. Si mise a piangere.
Solo quell’estate che qualcuno mi cercò in Siria per promettermi un lavoro nuovo trovai la quadratura del cerchio.
Ho compreso che sino a quando non avevo iniziato quegli esercizi, io non ero mai stata capace (forse da quando avevo sei anni) di essere veramente ambiziosa. Apparentemente lo ero, avevo grandi progetti e molta voglia di fare, ma poi non riuscivo a concludere nulla, se non tra grandi sofferenze e senza alcuna naturalezza, e la paura di fallire o che la strada intrapresa, appunto, non mi piacesse più, era sempre più forte e prevaleva in maniera perfettamente evidente. Per anni ho attribuito il tutto a una mancanza di fortuna.
Quello che serve per riuscire nella vita e soprattutto godersela, invece, è pensare in grande, anzi enorme, e non vergognarci di desiderare. Ho ottenuto quello che volevo e ora voglio altro? È perfettamente naturale, io voglio vivere in grande, che per me vuol dire crescere, senza paure. Think big, live big.

L'oroscopo speciale


Nonostante un esibito scetticismo che ritengo derivante dalla paura di essere additata come credulona, l’oroscopo mi affascina. Cosi professo disinteresse, ma lo leggo sempre, di nascosto, su Vanity, su Metro, su Internazionale. Le previsioni del mio segno per il mese di agosto 2010, pubblicate sulla rivista “A” acquistata in aeroporto prima di un viaggio on the road, proferivano: è inutile scalpitare, dovrete aspettare almeno settembre per cambiare lavoro.
Bè, mi sono detta, a meno di non voler aprire uno spaccio di sapone di Aleppo in Siria o raccogliere illegalmente i coralli per farne collanine da vendere in Giordania, ritengo questa previsione discretamente probabile, dato che sarò in Medio Oriente sino a fine agosto.
Eppure a cavallo del 15 di agosto, giorno più giorno meno, accade l’inimmaginabile: tra lo strombazzare delle auto e l’insopportabile calura mediorientale a rendere tutto più macchinoso, Lui che mi impone di non rispondere, dall’estero, ai numeri sconosciuti, ricevo la telefonata di un head-hunter a cui mesi e mesi prima avevo fatto avere un mio cv per un’altra posizione, che mi propone un’ottima opportunità professionale. Crescita di ruolo, contratto a tempo indeterminato, impiego in una multinazionale (filiale italiana) in un settore nuovo, in crescita, che risponde alla mia etica personale e professionale.
Ho passato le successive due settimane, oltre che a godermi la mia vacanza, a cercare informazioni su questa società così nuova che non ne ho trovate, e sulla figura ricercata. Che parli inglese. Parlo inglese. Che parli francese. Parlo francese. Che provenga dal settore produzione. Provengo dal settore produzione. Esperienza settore impiegatizio. Ce’lo. Non mancava proprio nulla. Non c’era dubbio, ero io che cercavano, e mi avevano trovata anche da lontano.
I primi di settembre, dopo un mese di ferie e il carico di lavoro che mi aspettava, non avrei mai potuto chiedere nemmeno un minuto di permesso, e per incontrare l’head hunter dovevo andare in un’altra città. Approfitto di una festività che dove lavoro io è sempre ai primi di settembre. E dopo pochi giorni rassegno le mie dimissioni a un capo esterrefatto che si sarà anche chiesto: ma quando è riuscita a fare i colloqui, che non ha mai chiesto un giorno di ferie permesso mutua?? Caro capo, non ce n’è stato bisogno. D’altronde, il mio oroscopo era stato chiaro.
Sono uscita ad un’azienda che non credeva in me e nelle mie potenzialità, che mi lasciava fare il solito e solo per coprire i buchi mi lasciava lavorare il doppio, senza farmi imparare e senza volermi pagare gli straordinari, da un’azienda padronale in cui non vi era possibilità di crescita, da un’azienda che teneva al guinzaglio me e i miei progetti, con un infinito contratto di apprendistato di 54 mesi, dal quale sarei uscita (se sopravvissuta) a 33 anni suonati.
L’aspetto più peculiare della faccenda è che proprio da quella vacanza io e Lui avevamo deciso – fanculo i 34 mesi di contratto che mi restavano da scontare – di tentare di avere un figlio. Avevo una paura fottuta, ma anche non volevo che uno stupido contratto e una stupida azienda potessero privarmi dei miei progetti, e questo prevaleva. Provammo qualche volta abbastanza casualmente, così giovini ingenui e ancora ignari dei vari metodi di calcolo della fertilità esistenti. E non successe proprio nulla. In abbinamento con la novità lavorativa che si era presentata, l’abbiamo preso come un segno del destino e abbiamo deciso di rimandare ancora un po’, giusto qualche annetto. Forse avrei comunque fatto tutto prima dei 33 anni, pur cambiando lavoro.